Il caffè delle diaspore
giovedì 13 agosto 2020
Lettera di un amico
È un amore che parte da lontano. Da bambino andavo in vacanza a Portorose ed era ancora Jugoslavia. Sono cresciuto in una famiglia di ex sessantottini, per cui mi è stato inculcato un certo indirizzo, che ho approfondito negli anni di liceo. Tu calcola che io facevo quinta ginnasio nel pieno del movimento studentesco dell' 86, il mio professore di latino e greco era un marxista profondo, per cui non fu difficile innamorarsi del maresciallo Tito... La Jugoslavia negli Anni Ottanta era un paese affascinante per noi ragazzi, estro, fantasia arte in ogni cosa. Anche un filo di pazzia. Transitai da Belgrado la prima volta nel marzo del 1989 mentre ero diretto a Bucarest per la partita Dinamo-Sampdoria: fu amore a prima vista. Poi scoppiò la guerra e tutti i media ce la vendevano in un certo modo. Ma io in adolescenza avevo studiato la storia slava e non potevo credere alle baggianate che ci raccontavano. Nella primavera del 1992 andai a Sofia per assistere a Stella Rossa-Sampdoria e non potei credere a quello che vedevo con i miei occhi. I Delije ci attaccavano nel bosco con perizia militare e facemmo davvero fatica a portare a casa la pelle... Da lì iniziai a seguire quel che accadeva in Jugoslavia attraverso canali differenti. Nel tempo l'amicizia con famoso calciatore serbo, ma soprattutto con Nenad S. mi fece vedere le cose, attraverso i loro racconti, con occhio diverso... Ed anche la saggezza dello zio Vujka in quegli anni fece da motore per la conoscenza. Dopo la guerra, sono stato diverse volte in tutti gli Stati ex jugoslavi e la sofferenza, la dignità e l'orgoglio li ho incontrati solo in Serbia. Soprattutto nei piccoli centri.
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