Il caffè delle diaspore
martedì 14 aprile 2020
Snjezana e la Bosnia
Ci penso sempre, ma oggi in particolare, oggi 13 aprile esattamente 28 anni fa mi trovavo a Venezia con la mia cara amica e i nostri tre figli piccoli. Scappate dalla Bosnia in viaggio per la Sicilia dove avevo la madre che da trent'anni viveva in seconde nozze con un buon siciliano in provincia di Palermo. Eppure mi sembra ieri, non passa il tempo, non cura le ferite, rimane imprigionato nel profondo animo, nell'inconscio e sta lì. Aspetta, aspetta qualcosa, un segno, un'inizio che la vita prosegue come era prima. Avevo 29 anni, mio figlio, un piccolo biondino con i capelli riccioli, gli occhi azzurri, un'angioletto aveva 6 anni. Dopo un po' sono scappati anche i nostri mariti, ci siamo riuniti. La vita in Sicilia prosegue con la speranza di tornare al più presto in Bosnia, che la guerra si ferma. Eravamo tristi per le notizie dalla Bosnia, ma nello stesso tempo ringraziavamo Dio per essere vivi. La tristezza era immensa ascoltando la radio Sarajevo, dolore e la morte, la depressione che non può fare niente. Ci siamo adoperati a sensibilizzare la popolazione e con la Caritas mandavano gli aiuti primari, ma nel cuor nostro ci sentivamo vuoti e persi. Non dormivo la notte, ascoltavo la radio, piangevo e mi dicevo, noi non dovevamo scappare, dovevamo rimanere ed aiutare. Mi sentivo disertore, mi sentivo anche una nullità. Ma noi le armi non le abbiamo avute, non sparerei nemmeno, noi eravamo semplici cittadini disarmati e attaccati. Cosa si poteva fare? Eh sta parola cosa fare, mi rimbomba ancora in testa. La nostra vita prosegue in Sicilia, tra la guerra e pace. Mentalmente in guerra, fisicamente in pace. La gente, i siciliani con i loro calore sono stati bravissimi a consolarci; molto affettuosi. È stato un grande aiuto per noi, che pian, piano abbiamo ripreso la vita. Abbiamo iscritto i bimbi a scuola, abbiamo cominciato a lavorare, abbiamo iniziato a costruire la giornata in attesa del ritorno. Ritorno che non avveniva mai, la guerra dilagava, cadevano le città, la nostra proprietà tutta bruciata dalle granate. La nostra vita proseguiva con i tutti dolori. Bambini bravissimi a scuola, cominciavano a passare prima, seconda, terza classe, passano gli anni, ma la guerra no. Come fulmine dal cielo sereno mi arriva un'altro dolore, nella notte muore mio marito d'infarto a soli 41 anni. Da non credere, sembra rubato, ero persa. Fu un lampo, fu un scherzo di destino. Con tutto amore e calore della gente che si si è stretta intorno a me abbiamo fatto il funerale, ma a me sembrava irreale. Ho pianto si, ma non ci credevo. Così dopo sulla finestra ogni sera lo aspettavo che tornava dal lavoro, stanca me ne andavo a letto. Ho iniziato subito a lavorare anche io, compravo i fiori e andavo al cimitero, guardavo la sua foto sulla lapide, posavo i fiori, gli parlavano. Lo vedevo lontano, se ne è andato, si se n'è andato in Bosnia. Ecco la mia mente cosa mi diceva e mi convinse così. Sono passati tanti anni, mio figlio è cresciuto, finita la guerra, siamo andati in Bosnia divisa in due. La mia città in Repubblica serba. Città distrutta, con la gente nuova, non conosco nessuno, sporadicamente si vede un viso conosciuto triste che con immenso dolore e silenzio ci abbraccia e ci saluta. Silenzio, si mi ricordo silenzio triste, dovevamo registrarci nell'apposito ufficio per dimostrare che siamo vivi. La coda infinita di gente stremata, con gli occhi bassi aspettava il suo turno. Negli uffici la gente nuova che ci interrogava e chiedeva i documenti. Mio appartamento distrutto, hanno sistemato e consegnato ad un'altra famiglia. Non si poteva andare, c'era la legge che non si doveva inquietare la pace dei nuovi proprietari. Le vie, hanno cambiato il nome pure le vie, per presentare la domanda dovevo dire in che via abitavo, ma non quella di allora. Andavo a vedere bene il nome della mia via, guardavo sul mio balcone la nuova proprietaria sta stendendo i panni, ed io mi sento ancora più persa. Vedo appartamento e non è mio, vedo la strada e sempre uguale, ma con diverso nome. Ecco mi sentivo priva d'identità. Alloggiavo preso i parenti nella città vicina in Federazione. Ho fatto la domanda per riavere la proprietà. Tornai in Sicilia ancora più triste. Sono passati 7 lunghi anni di burocrazia complicata e i nuovi proprietari lasciano il mio appartamento demolendolo completamente. Hanno portato via porte e le finestre, dentro hanno distrutto tutto. Torno sulle macerie, anche i muri tutti bucati, mi giro intorno guardo il vuoto e immagino i miei bei mobili e la casa arredata. Sento una presenza in aria, sento calore e una strana pace. Mi siedo su un mattone come in trans, non sento più il dolore, comincia ad arrivare la forza, sento coraggio, come se mio marito mi dicesse, tranquilla ti aiuto io. Sento i bambini giù che giocano, sento chiamare la mamma, corro sul balcone, cercavo il mio piccolo biondino con i capelli a riccioli, gli occhi azzurri come cielo, cercavo, apro la bocca per gridare, amore dove sei, la mamma è qui. Ma poi scuoto la testa e ritorno in me. Già, questa è la realtà che purtroppo mi accompagna anche oggi. Oggi è 13 aprile, 28 anni fa ero a Venezia in viaggio per la Sicilia, io ne avevo 29 anni, mio figlio ne aveva 6 . Sono passati 28 anni, mio figlio è cresciuto, si è laureato, èand ato via da casa per lavoro. Io ho 57 anni, e ancora oggi quando quando vado in Bosnia, con gli occhi cerco il bambino biondo e mi giro ogni volta quando sento chiamare mamma. Ecco cari miei, questa mia testimonianza non è rivolta contro nessuno, io non odio nessuno, volevo solo dire quanto psicologicamente la guerra lascia nell'animo. Quanto distrugge la persona, spezza la vita in due e non ce ne sono psicologi a collegare i ricordi
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